Incontro culturale

Sreghe, folletti, lupi mannari e magia nella Roma antica

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Docente Massimo Gusso

Massimo Gusso, appassionato cultore di storia romana, il 23 gennaio 2024 ha presentato ai soci dell’Università Aperta Auser di Conegliano un aspetto insolito della società antica, quello legato alla superstizione e alla magia.


Se, dopo aver guardato la presentazione, volete approfondire l’argomento “Streghe, folletti, lupi mannari e magia nell’antica Roma” potete leggere le didascalie che Massimo Gusso ha preparato per illustrare la sua lezione.

SLIDE 01. Un titolo piuttosto affollato. Ci sono tante cose, esseri misteriosi chiamati con la lingua di oggi e con la nostra immaginazione, e non è detto che quelle parole, Streghe, folletti, eccetera, rispecchino davvero quel che pensavano, o credevano, gli antichi romani; e poi il concetto complesso e variegato di magia, che pure dovrà essere contestualizzato in qualche modo. Ma iniziamo

SLIDE 02. Parlare delle credenze (e delle superstizioni) di una società antica è sempre problematico perché siamo inevitabilmente portati al confronto con l’attuale (anche solo per le assonanze), procedimento da evitare con cura, e, d’altra parte, abbiamo difficoltà a contestualizzare ciò che sentiamo perché gran parte delle cose che ci vengono sottoposte (fonti, materiali archeologici) ci sembrano incomprensibili, se non addirittura incredibili. Ecco, noi non dobbiamo credere a niente, né essere convinti di qualcosa, ma dobbiamo solo farci condurre a osservare una realtà senza paura, senza pregiudizi, e persino senza scrupoli, così come guardiamo un acquario senza la necessità di essere, né la voglia di diventare, biologi marini. La società romana di età imperiale (I-V secolo d.C.) è una realtà variegata, difficilmente presentabile in modo omogeneo, e comunque molto lontana da noi, non solo nel tempo, ovviamente, ma anche nell’approccio con le cosiddette credenze, sia religiose, che di costume. Vedrete materiali anche più antichi dell’età imperiale romana, perché molte credenze mostrano nell’antichità una continuità molto solida e non scalfita dal tempo.

SLIDE 03. Il politeismo, ad esempio, è una realtà che forse stentiamo a comprendere. Ora prevalgono decisamente i monoteismi e, con loro, la preclusione verso le religioni degli altri: un atteggiamento che ha provocato (e continua a provocare) veri e propri conflitti religiosi, spesso molto sanguinosi, che furono invece – in quel senso – del tutto sconosciuti nel mondo antico.

Ora, certo, possiamo riscontrare ­– limitatamente almeno all’attuale sviluppo delle diverse facce del cristianesimo – un faticoso raggiungimento di una “tolleranza” che risultava invece intrinseca e naturale nel politeismo degli antichi. Come leggiamo in quel libro che segnalo, duemila anni di monoteismo ci hanno abituato a ritenere che Dio non possa essere se non unico, esclusivo, vero. Al contrario, il politeismo antico prevedeva la possibilità di far corrispondere fra loro dèi e dèe appartenenti a culture diverse, ovvero di accogliere nel proprio pantheon divinità straniere; insomma, il politeismo appare inclusivo, il monoteismo esclusivo

SLIDE 04. Vedete qui un esempio: di fronte a una nuova divinità, il politeismo romano la includeva e, se andate a visitare gli scavi di Pompei, ci troverete anche il tempio delle dea egiziana Iside, che ispirò anche Mozart… Questa disposizione all’apertura ha fatto sì che il mondo antico non abbia conosciuto quella violenza a carattere religioso che invece ha insanguinato, e spesso ancora insanguina, le culture monoteiste. È possibile attingere oggi alle risorse del politeismo per rendere più agevoli e sereni i rapporti fra le varie religioni? Rinvio, chi vorrà alla lettura suggerita in precedenza, perché oggi qui ci limiteremo a fenomeni marginali rispetto alla religione.

SLIDE 05. Dobbiamo considerare la particolare relazione che gli antichi romani avevano con la morte e con la parola, prima di dare qualche notizia sulle credenze che erano connaturate ai livelli meno profondi della religione, quelli sulla magia, sull’evocazione di esseri, su figure intermedie tra uomini e divinità. Iniziamo dal rapporto tra gli antichi romani e la morte.

SLIDE 06. Teniamo conto che l’aspettativa di vita media, in epoca imperiale romana, si aggirava all’incirca sui venticinque anni. La durata della vita, per la maggior parte delle persone era decisamente breve, e la presenza della morte era continua e assillante, a causa di malattie contagiose (quali il vaiolo), malnutrizione, croniche infezioni gastroenteriche, setticemie, malaria, violenze, per non parlare della mortalità delle partorienti, dei neonati e dei bambini.

Vediamo qui un mosaico da Pompei con il classico (anche cristiano) «ricordati che devi morire».

È un’allegoria complessa: in equilibrio sulla ruota della fortuna, il teschio sta sotto piombo e livella del muratore da cui pendono, in equilibrio, scettro, diadema e porpora del re da un lato, bastone, bisaccia e il mantello lacero del mendicante dall’altro. Tra teschio e ruota si vede la farfalla dell’anima. L’allegoria non allude direttamente ai piaceri della vita, ma il tema di omnia mors aequat si fondeva facilmente con l’appello a godere maggiormente delle cose buone della vita mentre le si hanno. Il mosaico pompeiano è stato utilizzato per decorare un tavolo del triclinio, dove si pranzava.

A sinistra un antico vaso greco e un antico unguentario con lo stesso tema: le divinità del Sonno e della Morte che trasportano il guerriero troiano Sarpedonte, ucciso mentre combatteva. Gli antichi associavano sonno, sogni e morte alla capacità di predire il futuro, forse perché credevano che il futuro fosse conoscibile nell’Aldilà. Anche Ulisse, lo vedremo, andrà a trovare l’ombra del morto indovino Tiresia per farsi predire il futuro. E un altro personaggio letterario, l’Amleto di Shakespeare, nel suo monologo Essere o non essere, dice: morire, dormire, nulla più, e poi: morire, dormire, sognare, forse... rivelando la continuità nei secoli della relazione antica tra morte sonno e sogno…

SLIDE 07. Ma vediamo una serie di tradizioni seguite dagli antichi. Tre volte l’anno, almeno secondo la religione tradizionale di Roma antica, forse in più luoghi diversi, ad esempio nella zona del Foro romano o nell’area del Circo Massimo, si apriva – come si usava dire – il mundus. Si ritiene che l’Umbilicus Urbis fosse strettamente legato al Mundus, o che addirittura esso fosse la copertura esterna monumentalizzata del pozzo sacro. Le date erano il 24 agosto il 5 ottobre e l’8 novembre.

Che cosa significasse, in senso pratico, questa “apertura” (un pozzo, un varco, una porta?), che cosa

realmente “aprisse”, o a cosa desse adito, e infine per quale ragione la “cosa aperta” si chiamasse mundus non si sa. La stessa nozione di mundus – come è stato infatti scritto – è una delle più controverse della religione romana. Che si trattasse dell’ideale passaggio verso il (o dal) mondo infero si può solo supporlo, e non è tuttora nemmeno chiaro quale sia la’etimologia della parola “mondo” (dall’etrusco munϑ), se mundus fosse collocato in basso (nel profondo della terra), e consacrato agli dei Mani, ma forse anche il più concreto mondo dove vivevano gli uomini (altrimenti detto orbis) e che, di conseguenza, di mundi ce ne fossero due, quello chiuso rispetto agli umani (tanto da venire occasionalmente “aperto”), e quello normalmente abitato dagli umani (dire di inferussuperus).

SLIDE 08. Soffermiamoci sull’Ulisse omerico (Odissea, libro XI): per ritornare a Itaca, l’eroe deve parlare con l’indovino Tiresia, che era morto. Ulisse aiutato dalla maga Circe trova il luogo di passaggio dove operare il rito per entrare in contatto con i morti: Ulisse scava una fossa, facendo sacrificando degli armenti, e il loro sangue cola nella fossa. A quel punto compaiono le anime dei trapassati – pigiandosi tra di loro stridendo (tenete conto di questo verbo, che ritroveremo) – tanto che Ulisse deve tenerle a distanza (persino quella di sua madre!) a spada sguainata (anche questo gesto con la spada ritroveremo), per impedir loro di avvicinarsi al sangue: infatti, se avesse voluto parlare con Tiresia, avrebbe dovuto lasciare che l’indovino lo bevesse per primo. Questa rimane una bella descrizione di quello che per i romani era un mundus aperto, da cui escono i morti, e fa capire come si trattasse di un percorso generalmente a senso unico: sono i morti che, se evocati, si fanno vedere, e non è l’uomo a raggiungerli nel loro mondo perduto. Infatti, Ulisse parlerà a Tiresia e poi a sua madre e ad altre ombre di morti, senza scendere nel mondo infero: il suo incontro sconvolgente ed emozionante con gli abitanti dell’oltretomba avviene in un luogo limite, “di confine”. La figura che vedete, da un vaso greco, mostra la scena dell’Odissea: Ulisse seduto, un coltello in mano, i piedi sui resti di un ariete, consulta lo spirito di Tiresia, la cui testa è visibile davanti all’animale sacrificato: a destra e a sinistra i due compagni di Ulisse che lo hanno aiutato col sacrificio.

SLIDE 09. A Roma c’erano delle feste dette Lemuria, nel mese di maggio, che servivano a placare le anime tormentate dei morti che si presentavano sotto forma di ombre (chiamate Lemures, o anche Larvae), che in quelle occasioni vagavano per strade e case. Questo che vedete è il calendario romano con evidenziato il mese di maggio, quando nei giorni che per noi sono il 9, l’11 e il 13 si celebravano i Lemuria.

Leggiamo cosa scrive il poeta Ovidio (tra il 3 e l’8 d.C.), parlando del rituale che compiva il pater familias nella propria casa, in piena notte per farvi uscire le anime degli antenati:

Ovidio, Fasti, V, 431-444Il rito del pater familias
ille memor veteris ritus timidusque deorum surgit (habent gemini vincula nulla pedes), signaque dat digitis medio cum pollice iunctis, occurrat tacito ne levis umbra sibi. cumque manus puras fontana perluit unda, vertitur et nigras accipit ante fabas, aversusque iacit; sed dum iacit, ‘haec ego mitto, his’ inquit ‘redimo meque meosque fabis.’ hoc novies dicit nec respicit: umbra putatur colligere et nullo terga vidente sequi. rursus aquam tangit, Temesaeaque concrepat aera, et rogat ut tectis exeat umbra suis. cum dixit novies ‘manes exite paterni‘ respicit, et pure sacra peracta putat.Chi conosce l’antico rito e ha timore degli dèi si alza (entrambi i piedi privi di calzari), fa dei gesti, il pollice stretto tra indice e medio, tacendo perché una lieve ombra non gli si metta davanti e dopo aver purificato in acqua di fonte le mani si volta, e raccoglie fave nere, e mentre le getta dietro le spalle, dice: ‘queste le lancio e con esse libero me e i miei congiunti’. Ripete la formula nove volte senza guardarsi alle spalle. Si crede che l’ombra le raccolga e, non vista, lo segua. Di nuovo tocca l’acqua e fa risuonare i bronzi di Temesa, e prega che l’ombra esca dalla sua casa. Dopo aver detto nove volte: ‘uscite ombre dei miei avi!’ Si guarda le spalle e giudica il rito compiuto correttamente

Era poi previsto di fare sacrifici alla divinità psicopompa, per eccellenza, quella cioè ‘che accompagna le anime’, il dio Mercurio (il greco Hermes) – ho messo un mosaico del mese di maggio con un sacrificio a lui offerto – per la sua familiarità con l’oltretomba e per il suo essere capace di visitare entrambi i mondi, dei vivi e dei morti (troveremo verso la fine che anche un uccellino come lo scricciolo sembra avere, nella credenza popolare, le stesse prerogative.

SLIDE 10. Questi i Lemuri della Zoologia, proscimmie del Madagascar, così chiamate, oltre che per le loro abitudini notturne e i grandi occhi, anche per il loro incedere traballante, come doveva essere nella tradizione leggendaria quella dei Lemures dell’antica Roma.

SLIDE 11. E veniamo al rapporto tra i Romani e la Parola. E vedrete che attraverso la Parola finiremo col parlare anche di Magia, anticipandola rispetto all’ordine suggerito dal titolo.

È bene chiarire che tutta l’Antichità è caratterizzata da un rapporto estatico verso la Parola, pensiamo al Dio della Bibbia che crea con la Parola (Sia la Luce, e la Luce fu), e che consegna ad Adamo l’onere di dare un nome agli animali e alle cose, che prendono la loro piena esistenza dopo che la Parola agisce su di loro nominandoli. E veniamo allo straordinario inizio del Vangelo di Giovanni, che qui vedete nel testo greco, e nella sua traduzione latina: All’inizio c’era la Parola, e la Parola era presso Dio, e Dio era la Parola… Si tratta di un inizio folgorante. Tutto viene dalla Parola, Dio stesso è la Parola. Ovviamente i Romani usavano la scrittura con grandissimo impegno, ma la forma orale restava importantissima, pensiamo alle evocazioni religiose, che era vietato scrivere, trasmesse da sacerdote a sacerdote, così come le formule del diritto, che erano tutte affidate alla memoria.

Adesso diciamo che ciò che è scritto rimane e ciò che è affidato alla parola scompare presto (scripta manente, verba volant), per i romani, come spesso nelle civiltà antiche, era esattamente il contrario.

Vedete qui, a destra le raffigurazioni della memoria, sono raffigurazioni di orecchie, organo che era deputato sì ad ascoltare, ma anche a rappresentare la memorizzazione, lo vediamo da un cameo in basso dove una mano tira l’orecchio e la scritta MNEMONEUE, in greco RICORDA!, ci fa tornare a una modalità che forse ormai non si usa più (tirare le orecchie ai ragazzini) e che quando si usava di certo non faceva venire in mente un passato tanto lontano: tirare le orecchie significava, ricorda (e per i ragazzini, in genere, ricorda di non fare più, quel di cui erano rimproverati). PAROLA e MEMORIA, due facce della stessa medaglia. Una parola, in particolare, dobbiamo richiamare: FATUM

SLIDE 12. FATUM, il fato, il destino di ciascuno, che era già stabilito, perché era stato già DETTO. FATUM, infatti, è il participio passato del verbo FARI (dire), e significa “DETTO”, come a dire che il destino di ciascuno era già stato “detto” (noi oggi diremmo che era stato “scritto”) al momento della nascita. Pensiamo alla mitologia canora e musicale del portoghese FADO, con il suo struggimento. Il nome deriva dal latino fatum (destino) in quanto essa si ispira al tipico sentimento portoghese della saudade e racconta temi di emigrazione, di lontananza, di separazione, dolore, sofferenza.

In analogia con le loro equivalenti greche, le MOIRE, che vediamo qui sotto le ultime tre figure a destra: Clotho, Lachesis e Atropos, tre divinità romane, denominate PARCHE, presiedevano al destino di ciascuno fin dalla nascita. Esse si chiamavano Parca, Nona e Decima, così da partus e dai numerali dei mesi della fine della gravidanza, il nono e il decimo (spiegazione sul decimo mese).

Le tre PARCHE erano dette anche TRIA FATA, “triplice destino”, o anche FATA DIVINA…

È piuttosto rara la loro raffigurazione, anche se ci sono molte iscrizioni che le ricordano. Ho scelto una raffigurazione in età cristiana, nel IV secolo d.C., in un momento – parola difficile – di sincretismo, quando cioè si registra la sopravvivenza di culti precristiani in concomitanza con lo sviluppo e la diffusione della nuova religione vediamo ancora in un affresco delle catacombe di Vibia, a Roma queste figure a sinistra con l’indicazione del loro nome in FATA DIVINA.

SLIDE 13. Vediamo qui la raffigurazione delle tre PARCHE in una manifestazione propagandistica delle offerta da una moneta d’oro dell’imperatore Diocleziano (anni 284-286 d.C.). La scritta attorno alle figurine delle tre dee dice FATIS VICTRICIBUS che letteralmente significa: “ai destini vincitori (che portano la vittoria)”. In questo caso abbiamo la appropriazione politica di queste divinità ad uso della rivendicazione del futuro dell’Impero

SLIDE 14. Si capisce a orecchio quanto sia facile passare da FATA (plurale di FATUM) alla nostra “Fata”, delle favole, di Cenerentola, di Pinocchio… E la “Fata” è l’elaborazione tardoantica e medievale di una (serie di) divinità romane, andando ad assumere un ruolo folclorico, non a caso, gli antropologi e gli studiosi di fiabe definiscono la “Fata” un aiutante fatato, un aiutante magico… Le fate delle fiabe usano parole magiche per aiutare i loro protetti, ma il confine tra le “buone fatine” delle fiabe e le “maghe cattive” è labile, perché in antico, la parola poteva anche essere uno strumento magico talmente potente da evocare i morti, ed ecco legare la Parola alla Morte, come anche lo stesso FATUM (il DETTO) era la Parola che recava in sé il destino, e quindi anche la Morte, di una persona…

SLIDE 15. Il diritto romano aveva cercato di proibire le attività di magia, soprattutto se esse erano dirette a causare la morte di qualcuno. Per gli antichi romani la maledictio (letteralmente: “l’uso della parola per causare il male”), operante nella magia oscura, poteva comportare – nella credenza del tempo – anche la morte della persona: tutti ne avevano paura e nessuno ne dubitava, e già nelle antichissime leggi dette delle XII tavole (451-450 a.C.) erano state previste sanzioni per chi pronunciava incantesimi allo scopo di nuocere a qualcuno.

A partire dalla Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, voluta dal dittatore Silla, venne prevista la pena capitale per chi causasse la morte di qualcuno, preparando, vendendo, comprando, detenendo o somministrando un venenum malum necandi hominis causa e iniziò la legislazione contro per chi praticava arti magiche. Il legame concettuale tra veleno e maleficio appare chiara.

Da Tiberio in poi, era prevista la pena di morte per chi esercitava arti magiche finalizzate a delitti. In età imperiale si affermò la prassi per cui ai colpevoli dell’arte magica toccava la pena di morte, gettati alle bestie nell’arena o crocifissi. I veri e propri maghi, tuttavia, sarebbero stati bruciati vivi. Inoltre, a nessuno era consentito detenere libri di arte magica (libri artis magicae); a coloro in cui venissero trovati sarebbero stati confiscati i beni, i libri bruciati pubblicamente, e loro stessi deportati su un’isola; infine, non solo era vietata la professione dell’arte magica, ma anche la sua sola conoscenza.

Un caso drammatico di avvelenamento (provocato da magia) fu quello di Germanico, nipote dell’imperatore Tiberio, morto in Siria nell’ottobre del 19 d.C. che diede luogo a un celebre processo. Secondo le fonti, raccapriccianti scoperte avvennero nella casa dove Germanico aveva vissuto e dove era morto: furono trovati nel pavimento e nelle pareti resti di cadaveri, testi scritti e maledizioni e il nome di Germanico iscritto su tavolette di piombo, ceneri mezzo bruciate e imbrattate di sangue, e altre cose nocive per mezzo delle quali si ritiene che gli spiriti siano consacrati alle potenze degli inferi. Era stato ‘avvelenato’ tramite un procedimento magico.

SLIDE 16. Le tabellae defixionum. Nell’antica Roma, le defixiones (defissioni; al singolare defixio, defissione) erano testi di contenuto magico, spesso contenenti maledizioni, scritti su tavolette (le tabellae defixionum) costituite da lamine di piombo incise a graffio. Il nome deriva dal latino defigere («inchiodare», «conficcare», «immobilizzare»), con evidente allusione alla volontà di immobilizzare le capacità fisiche e mentali della persona oggetto della maledizione, nonché all’atto pratico di trafiggere il supporto scrittorio con chiodi, attuando così una sorta di effetto simpatetico, cioè di identificazione tra l’atto fisico della trafittura e l’invocazione del castigo divino. La defissione definisce la pratica magica collegata al rito della penetrazione con un chiodo della lamina arrotolata su sé stessa, su cui era scritto il nome del destinatario della maledizione o su cui era inciso semplicemente il testo dell’anatema. La tavoletta inchiodata era posta in una buca che si credeva potesse comunicare con gli Inferi. Assieme alla tavoletta scritta potevano essere sotterrati anche oggetti…

SLIDE 17. Le tabellae costituiscono un reperto importante anche dal punto di vista linguistico. Gran parte dei testi contengono maledizioni rivolte verso personaggi precisi, il cui nome era ben indicato per garantire l’efficacia del rito. Spesso non si richiedeva la morte del proprio avversario, anzi si prediligeva piuttosto richiedere alle potenze infernali che un individuo ostile fosse portato in punto di morte ma non ucciso. Tali testi dopo esser stati scritti erano nascosti presso tutti quei luoghi che si ritenevano spazi privilegiati di contatto tra il mondo terreno e ultraterreno: in particolare grotte, fonti, templi e soprattutto tombe di individui morti prematuramente o violentemente. Questo atto rispondeva a due necessità: da un lato, celare l’iscrizione agli occhi indiscreti di lettori viventi, dall’altro affidare la propria maledizione alle forze infere (non necessariamente divinità) o alle anime dei defunti. Probabilmente c’erano individui specializzati nella stesura dei testi di maledizione….

SLIDE 18. Nel mondo greco e romano questo tipo di tavolette erano diffusissime, e ne sono state ritrovate numerose sia in greco che in latino. Un famoso esempio – cui si è già accennato – sono quelle che, insieme a resti di cadaveri, ceneri e macchie di sangue furono trovate sotto i pavimenti della residenza del principe Germanico e che, secondo l’intenzione degli artefici, ne causarono la morte. Ma erano anche usate per scopi più quotidiani, ad es. per danneggiare i fantini rivali alle corse dei cavalli, prassi che, a giudicare dal numero di nomi di cavalli pervenuto, doveva essere molto frequente. Qui c’è la maledizione, esposta attualmente al Museo Civico di Bologna, contro il veterinario Porcellus e la moglie scritta in latino con invocazioni in greco su una sottile tavoletta di piombo, circa 1600 anni fa, in un’epoca in cui la magia nera era relativamente frequente; mostra la figura di una divinità con dei serpenti come capelli, forse la dea greca Ecate. Sulla tavoletta, che mostra il veterinario Porcello mummificato, braccia conserte (come la divinità) e il suo nome scritto su entrambe le braccia, si legge: “Distruggi, annienta, uccidi, strangola Porcellus e sua moglie Maurilla. La loro anima, cuore, natiche, fegato …”

SLIDE 19. Qui invece non abbiamo una maledizione, ma un esorcismo, e lo si capisce anche dal materiale su cui si è lavorato, che non è il piombo, ma l’argento. La laminetta d’argento, di cui qui c’è la trascrizione, incisa in greco e aramaico, probabilmente nel V sec. d.C. in ambiente ebraico e cristiano, è invece, in gran parte, un incantesimo contro i demoni e la febbre, sebbene vengano nominate anche altre afflizioni (il malocchio, la stregoneria, lo spirito di una persona morta). La parte greca descrive l’esorcismo dello spirito maligno.

SLIDE 20. Qui vediamola una delle rare raffigurazioni di apparizioni di fantasmi (a sinistra) e l’evocazione di uno spirito da parte di una negromante (a destra). Pitture su vasi greci del IV sec. a.C., in entrambi i casi. Nel primo, dal cosiddetto vaso di Medea, c’è l’apparizione di Eete, padre della stessa Medea, che appare come una specie di statua su una nuvoletta di fumo. A colori la riproduzione mostra bene la nuvoletta di fumo da cui si manifesta il fantasma. Nel secondo una negromante (una maga specializzata nell’evocare i morti e farli apparire, offre una libagione a uno spirito avvolto nel sudario, apparso davanti a lei. Il sudario serve solo a far capire a chi guarda che quello era un morto.

SLIDE 21. Un’altra rara rappresentazione di fantasma, in questo caso l’ombra nera di una defunta che appare dinanzi alla propria stele durante un’evocazione. È bene ricordare che le tombe antiche sono dei cenotafi, delle ‘tombe vuote’, perché greci e romani non praticavano l’inumazione, che prende avvio solo con l’affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale (IV-V secolo d.C.)

SLIDE 22. Il MALOCCHIO: abbiamo visto prima un esorcismo su una laminetta d’argento. Non solo si chiamava la malasorte su qualcuno, spesso, con esorcismi o gesti apotropaici, si cercava di rimuovere la malasorte da sé stessi e dai propri cari. La malasorte era detta malocchio, e lo si dice ancora.

Il malocchio è una delle tradizioni popolari più radicate, che tratta la superstizione del potere dello sguardo di produrre effetti sulla persona osservata; tale effetto può essere sfavorevole nella maggior parte dei casi. Causa principale del malocchio sono sentimenti quali invidia, rabbia e gelosia nei confronti del malcapitato, o bugie, un finti complimenti o un falsi sentimenti di ammirazione.

Contro il malocchio sono utili amuleti portafortuna nella cultura popolare, che variano a seconda dei contesti culturali e sociali. Ad esempio, questo antichissimo tipo di coppa (VI secolo a.C.), in ceramica calcidese, è chiamata “oculare” per la sua caratteristica decorazione con enormi occhi su entrambi i lati del vaso. Gli occhi si riferiscono a credenze popolari sul “malocchio” e sulla prevenzione dei suoi effetti. È l’epoca più antica quella che forma parole simili: malaria, ‘aria cattiva’ (da cui la malattia), o mala mano (il tocco di una mano cattiva, che poteva avere effetti negativi sulla persona toccata) ecc. Della mala mano parleremo con le streghe

SLIDE 23. Contro il malocchio

Eccolo qui il malocchio un occhio vero e proprio, in antico mosaico romano di epoca imperiale: il simbolo di malasorte è circondato e assalito da un corvo che lo becca, da un tridente, una spada, uno scorpione, un serpente, un millepiedi, un cane e una pantera. Lo spirito raffigurato accanto al simbolo del malocchio, caratterizzato dalle corna, possiede un membro sovradimensionato che gli si insinua tra le gambe. È uno spirito benigno (agathodaimon), perché la raffigurazione protegge non solo chi la possiede e se l’è messa in casa, perché chi la osserva può leggervi la scritta: KAI CY, καὶ σύ: “(sii felice) anche tu”, quindi la figura rappresenta la sconfitta del malocchio

Tutto questo vale anche per l’amuleto, a destra, contro malocchio e invidia (Phthonos)

SLIDE 24. Parliamo ora delle antiche streghe. Questo però è un dipinto di fine ‘800 e l’ho messo qui solo perché è molto bello ed evocativo, ma non ci deve trarre in inganno. Ciò che distingue costantemente i resoconti su questi esseri magici – poi vedremo anche i folletti e i lupi mannari – è che essi sono sentiti come veritieri da coloro che li raccontano, e si basano su principi e percezioni reali, certo con una sovrapposizione di fantasia e una decisa propensione al macabro. Le streghe antiche, rappresentate in forma femminile, non sono tuttavia ‘esseri umani’, sono ‘demoni’ nel senso etimologico del termine, cioè ‘esseri divini’, sia pur malvagi.

SLIDE 25. La strega, latino strix, compare in molti testi della tradizione letteraria romana quale ‘demone molestatore’ di infanti avido di interiora umane, oppure lugubre messaggera di morte. Vediamo qui, di seguito, una Definizione di ‘strega’ data da un grammatico latino: La ‘strega’ i Greci la chiamano strinx, e il nome è attribuito a donne malefiche che secondo loro sono anche in grado di volare

SLIDE 26. … e leggiamo della modalità di aggressione delle ‘streghe’ da Ovidio: Volano di notte e cercano i fanciulli senza nutrice (cioè soli); e violano i corpi rapiti alle loro culle; si dice che con i rostri strappino le viscere dei lattanti e hanno la gola piena del sangue bevuto

Ma andiamo a farci raccontare direttamente dagli antichi che cosa si pensava, ai loro tempi delle streghe: lo straordinario racconto dalla Cena di Trimalcione di Petronio. Uno dei partecipanti alla Cena, parlando con i suoi vicini racconta una storia, di quando, mentre lui stesso presenziava a una veglia funebre per la morte di un bambino molto piccolo. È come ascoltare una registrazione antica…

Or dunque, mentre la madre, poveretta, lo piangeva e noi si era in molti a vegliarlo, tutt’a un tratto le streghe cominciarono a stridere: sembrava il cane quando insegue la lepre.

Soffermiamoci sullo stridere delle streghe, un suono sottile, acuto e penetrante. È un termine che rimanda a una sfera vocale sinistra: come quella in cui risuona lo squittio dei topi (e squittire quindi equivarrebbe a stridere). Antichi e moderni si sono anzi adoperati per stabilire una connessione etimologica diretta fra la denominazione strix (o striga) e il suo essere creatura caratterizzata dallo stridere, ciò che «fa» della strega quello che è sarebbe per l’appunto la sua voce sottile e stridente. Per il paragone con il verso del cane che insegue la lepre, detto in italiano anche squittire, emettere versi brevi, acuti e stridenti, ancora nel XIV secolo si definisce così il verso dei bracchi quando seguitano la fiera. Ma torniamo al nostro racconto:

C’era con noi allora un uomo ben piantato, coraggiosissimo e pieno di forza: un bue inferocito avrebbe potuto sollevare. Costui arditamente, spada in pugno, si lancia fuori dalla porta, con la mano sinistra ben ravvolta nel mantello, e trapassa proprio come qui dove tocco – dio me ne scampi! – una di quelle donne. Sentiamo un gemito, e – giuro che non mento – non ne vediamo nessuna. Intanto il nostro omone, rientrato, si getta sul letto: aveva il corpo pieno di lividure, come se fosse stato preso a frustate, perché, è chiaro, lo aveva toccato la mala mano. Noi, chiusa la porta, riprendiamo la veglia, ma quando la madre abbraccia il corpo del figlio s’accorge di toccare un manichino di paglia. Non aveva più cuore, né intestini, più niente di niente: le streghe, questo è chiaro, s’erano portate via il bambino e al suo posto avevano messo un fantoccio pieno di paglia. È meglio che ci crediate. Esistono davvero queste donne che la sanno lunga (mulieres plussciae): son creature della Notte, e ciò che è dritto lo rovesciano (quod sursum est, deorsum faciunt). Questo racconto ci restituisce l’atmosfera della fisicità e nello stesso tempo della invisibilità delle streghe, la loro crudeltà e ferocia, oltre che la assoluta impotenza degli uomini, anche dei più coraggiosi, a resistere loro.

SLIDE 27. Lo scricciolo. Sembra incredibile, ma lo scricciolo e la strega condividono la stessa radice lessicale. Tuttavia, questo piccolo e simpatico uccellino, sarebbe una sorta di strega-buona: tanto, infatti, la strega era cattiva con i bambini, quanto questo minuscolo uccellino, nel periodo natalizio, un po’ come la strega-befana, era invece atteso con ansia dai bambini come portatore di doni (tradizione del Friuli Occidentale), ed era ritenuto in contatto con il regno dei morti, un tramite ‘buono’

SLIDE 28. Quello che resta delle streghe, in Zoologia, come abbiamo visto prima per i Lemuri: mi riferisco gli Strigidi, una famiglia di uccelli rapaci dell’ordine Strigiformes, di abitudini prevalentemente notturne, il Gufo comune (ancora nel comune parlare il gufo resta un “uccello del malaugurio, e si dice “gufare” per portare sfortuna); la Civetta (che era stata, tuttavia, il simbolo positivo della dea greca Atena, come mostra questa moneta ateniese del V secolo a.C.); l’Allocco e l’Assiolo…

SLIDE 29. E ora tocca ai Folletti dell’Antica Roma

In modo del tutto arbitrario, ho scelto per rappresentare i folletti queste due immagini, un nano, anzi un pugile nano vittorioso con un ramo di palma stretto tra i denti, e un gobbo, ma questo non vuole affatto raffigurare così i folletti, pur rammentando che anche nani, gnomi più o meno gobbi, in qualche modo finiscono prima o poi per essere rappresentativi della categoria. Come le streghe, anche i folletti, non sono ‘esseri umani’, ma ‘demoni’ nel senso etimologico del termine, cioè ‘esseri divini’, non necessariamente malvagi, talvolta solo molto fastidiosi, talaltra benigni

SLIDE 30. E partiamo proprio da folletti o spiritelli assolutamente benevoli, i Lari (Lares) piccole divinità della casa e della famiglia. Erano essenzialmente presenze tutorie, si prendevano cura del luogo loro assegnato, fosse esso ‘agricolo’, ‘domestico’ (della domus), come per il famoso Lar familiaris; erano poi anche preposti alla tutela del vicinato, dei crocicchi e a quella degli spazi delle comunicazioni. Si trattava di piccole divinità comuni e popolari, tanto da impersonare personaggi delle commedie, rappresentate a teatro dove, evidentemente, la loro diffusa simpatia trovavano un immediato riscontro ‘di pubblico’. Il Lar Familiaris custodiva per generazioni la domus, la casa della familia, e vegliava sul patrimonio, sui beni, sui diversi patres di tale familia e sui diversi componenti, e va ribadito che operava la sua tutela senza distinzione tra i diversi ‘strati’ sociali, tra le diverse condizioni’, maschi-femmine, vecchi-giovani, liberi-schiavi. Era lui stesso a sentirsi e a essere parte integrante della familia. Il Lar o i Lares erano venerati in qualche piccola nicchia in una parete, detta Larario, con delle statuette che si tramandavano, magari assieme alle imagines degli avi, oppure affrescati su una parete in un Larario più virtuale, ma di certo non meno prestigioso, fastoso, allegro, tanto da essere ben messo in mostra, a colori sgargianti, anche agli ospiti e ai visitatori della casa. Era un dio che si dava molto da fare, un gran lavoratore, e infatti era rappresentato sempre come incinctus, o succinctus, con la veste tirata su, legata in vita, per non essere ostacolato e potersi muovere agevolmente, a differenza del Genius della casa, mostrato togatus, addobbato con la toga, in posa rigida. La sede riconosciuta dei Lari era il focolare domestico, attorno al quale si riuniva la familia per consumare i pasti, tamnto che ne è derivato un sorprendente retaggio nell’italiano moderno che lega gli antichi Lares a parole come ‘alari’ (sostegni metallici della legna nel focolare), e come ‘larìn’ (il dialettale diffuso specie nel nordest italiano, che indica il focolare aperto, che consente a tutta famiglia di sedere intorno al fuoco in maniera comunitaria).

SLIDE 31. Parliamo ora di un folletto decisamente fastidioso, disturbante il sonno e provocatore di sogni cattivi, l’Incubo, ‘colui che ti si siede sopra’. Il Sogno cattivo che Zeus spedisce ad Agamennone (la storia si legge nell’Iliade) sembra aggredirlo fisicamente, gli «sta sopra». Per gli antichi greci non si ha o non si fa un sogno, ma lo si vede, e soprattutto lo si sente. Il termine Incubo ha avuto una nicchia di successo nell’italiano anche nell’italiano attuale, ma nel resto d’Europa ha avuto fortuna la prolifica radice mar (per ‘folletto incubo’) che ha generato, a partire dalla mitologia e dal folklore germanici, moltissimi termini: il tedesco Mahr (quindi Nachtmahr); il francese cauchemar; il danese mare; lo svedese mara; l’olandese nachtmerrie; il romeno cosmar; i polacchi koszmar e zmora; il serbocroato mora (e l’istriano mora); fino ai dialettali italiani maràntega (da mara+incuba), mara (vicentino), smara e zmara, tipici del bellunese: esiste infatti, nelle valli bellunesi la tradizione di uno spiritello, detto smara, che usa sedersi sul petto di chi sta dormendo provocandogli sensazioni assai spiacevoli – si dice el gà ‘a smara –, e che ha la facoltà di cambiare sesso… In questi quadri della fine del Settecento del pittore tedesco Johann Heinrich Füssli vediamo l’incubo che si colloca sul petto delle fanciulle addormentate in forma di gnomo o di scimmia. Dato che i termini come Mahr ecc. hanno anche il significato di giumenta, cavalla il pittore Füssli ha collocato una testa di cavalla in ogni dipinto per far capire a chi osserva di cosa intendeva ritrarre.

SLIDE 32. Ma ci si poteva difendere dall’Incubo? A quanto pare sì, se si era svelti e fortunati, e ci si poteva guadagnare molto, come risulta da quest’altro racconto di uno degli ospiti della già ricordata Cena di Trimalcione, il quale parlando di un tizio lì presente, ospite anche lui della Cena, dice: Fino a poco tempo fa, come lavoro, portava la legna sulle spal­le. Si dice – non so niente, ma ne ho sentito parlare –, che rubò il ber­ret­to a Incubo e trovò così un te­so­ro. Io, comunque, non in­vidio chi riceve qualcosa da un dio. Il suo speciale legame col mondo onirico ne fa poi una creatura davvero complessa, un vero tramite tra più dimensioni. Il berretto conico (pileus), che qui vedete su una scultura e un mosaico romani, lo imparenta, infine, con tutta la successiva serie folklorica della dei nani e degli gnomi, anch’essi instancabili minatori e custodi di tesori e ricchezze. La tradizione germanica (si veda in particolare la saga nibelungica) ci ha specificatamente conservato figure note per la loro capacità di assicurarsi l’invisibilità, oltre a custodire tesori. La natura divina di Incubus è fuori discussione, come si è detto finora: interessa il suo ruolo di “disturbatore divino”, di persecutore, di perturbatore. La divinità, nella mitologia antica, può spesso assumere queste vesti “scomode” per gli uomini, e che tutta una tradizione vedeva gli uomini stessi quali semplici marionette i cui fili erano tirati dagli dèi. Svariati sono gli esempi di come – a loro volta – gli uomini possano costringere al proprio volere anche le creature divine. Non stupisca quindi che l’impadronirsi del berretto da parte del disturbato possa costringere Incubus, pur con tutta la sua “divinità” ad obbedire al suo temporaneo padrone. Si può fare qualche altro esempio: l’Aladino, che con la sua lampada controllava il famoso genio tutto-fare, e le fiabe (celtiche-)irlandesi con protagonista il “ciabattino” Leprechaun connesso alla mitica Pot o’Gold, la pignatta di terracotta piena d’oro, che indica, tra l’altro, il punto di partenza (d’arrivo?) dell’arcobaleno… Ma l’antichissima tradizione di Incubo e del tesoro resta viva in Italia, fino ai nostri giorni. Pensiamo ai monachicchi, incubi lucani, di cui lo scrittore Carlo Levi, nel suo libro Cristo si è fermato a Eboli, scritto nel 1945, ma che si riferisce ai suoi ricordi degli anni ‘30, appresi dai contadini presso i quali è stato confinato dal regime fascista: folletti incappucciati, al modo dei monaci, da qui il nome. Sorprendenti le parole di Levi, specie dopo quelle della Cena di Trimalcione. Leggiamole: sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: conoscono tutto quello che c’è sotterra, sanno il luogo nascosto dei tesori. Per riavere il suo cappuccio il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentarlo fino a che non ti abbia accompagnato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà, ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e folli salti di gioia… Acchiapparli è difficilissimo…».

SLIDE 33. Parliamo adesso diFolletti” molto particolari: i Satiri. Anche “comparse” mitologiche, quali i Satiri erano coinvolti in tale complessa serie demonologica, assieme ai numerosi, misteriosi ed inquietanti «spettri specifici del mezzogiorno», alle Sirene, oltre a divinità falliche minori, periferiche, o solo meno note, come gli spiriti capriformi dei boschi ci sono senza dubbio anche i Satiri, connessi con i Fauni, i Silvani, i Sileni e le altre divinità paniche. Il nome di Silvano dio dei boschi e delle greggi, sopravvive nel franco-provenzale servan “folletto, gnomo”, nel piemontese sarvan “riflesso della luce”, lombardo salvan “incubo”, ladino salvan “spettro in aspetto di pastore”, trentino salvane, veronese salvano di nuovo “riflesso della luce”. Non è facile raccapezzarsi in questa turbolenta sarabanda, che cela -ma neppure troppo- imbarazzanti commistioni tra antichi culti solari, più resistenti culti agresti della fertilità e personificazioni di morbosità ancestrali (ancora attualissime).

SLIDE 34. Quasi sempre, però, in ogni manifestazione dei demoni dell’incubo, comunque denominati, a che ora si presentassero, e qualunque fosse stato il loro processo di identificazione, si può ritrovare il retroterra mitico del “grande dio” Pan, e non può essere evitato quindi qualche rinvio al punto di vista psicanalitico. In quanto divinità di tutta la natura, Pan rappresenterebbe per l’uomo e per la sua coscienza ciò che è “naturale in via esclusiva”. Il comportamento “naturale” è definibile come istinto, o come comportamento istintuale. Se l’istinto sfugge alla volontà e al controllo del soggetto può aversi l’esperienza del panico, una notevole diminuzione del controllo corticale del comportamento, e nel subire senza mediazioni le “urgenze” della natura, le oscure esperienze delle “prove”. Tra le quali soprattutto la fuga panica in battaglia (drammatica esperienza istintuale del singolo e della massa), l’incubo notturno (a ragione quasi sottomessa), o l’angoscia panica nella calura della campagna deserta del mezzogiorno, sotto il sole infuocato dell’estate mediterranea (quando si può forse percepire l’inquietante mistero della natura). La natura o la percezione della natura possono allora raggiungere l’individuo come veri e propri choc psichici: l’uomo cioè rischia d’essere sopraffatto da quel che di naturale non si sapeva di possedere dentro di sé.

SLIDE 35. Il giorno e la notte: vedete qui su un bel vaso greco, Helios (il Sole) che sorge sulla sua quadriga mentre, in alto, Nyx (la Notte) si allontana sul suo carro… a lato una meridiana romana

Solo con l’affermarsi ed il diffondersi degli strumenti di misurazione del tempo, venne meno l’indeterminatezza delle ore del buio, tra le quali si affermò sempre più la mezzanotte come “ora dei fantasmi” e delle apparizioni. Come dice Amleto, della mezzanotte, è l’ora della notte più stregata quando si spalancano sui sagrati le fauci dei sepolcri e l’inferno esala i suoi miasmi su questo mondo... Ma Amleto viveva nel tempo degli orologi con la pendola che batteva i dodici rintocchi…

Precedentemente, nell’antichità, quando andava bene si potevano contare al massimo le ore della luce, e l’ora più distinguibile di tutte, specie nelle calde estati mediterranee, era il mezzogiorno, quando il sole è più alto: e allora erano più frequenti le apparizioni dei i demoni meridiani

Ricordare la tradizione apotropaica cristiana dell’Angelus a mezzogiorno…

SLIDE 36. La notte era caratterizzata dal sonno e dai sogni, per quelli che dormivano. Vediamo qui alcune rappresentazioni di Hypnos, il dio del sonno. Ma c’erano esseri che di notte si trasformavano

SLIDE 37. Ed eccoci a parlare dei Lupi mannari nella Roma antica. Qui vediamo L’uomo lupo in un dettaglio decorativo da una ceramica etrusca, e una Testa di lupo in bronzo, di arte romana

SLIDE 38. Etimologie: Lupo mannaro, continuazione del latino popolare lupus hominarius, formato da lupus, ‘lupo’, con un aggettivo derivato dal latino homo, ‘uomo’, nel senso cioè di lupo in forma umana. ugualmente: Licàntropo, dal gr. λυκάνϑρωπος, da λύκος ‘lupo’ e ἄνϑρωπος ‘uomo’, mentre in latino si dice: Versipellis, parola che significa ‘colui che è capace di cambiare pelle’

SLIDE 39. Il lupo mannaro latino versipellis nel racconto di Petronio nella Cena di Trimalcione

Siamo sempre alla Cena di Trimalcione, inesauribile fonte di storie. Sentiamo questa storia decisamente interessante, raccontata da uno ora libero e benestante, ma allora schiavo: Il caso volle che il padrone fosse andato a Ca­pua a vender le sue cose. Prendo al volo l’oc­casione [di andare dalla sua morosa] e con­vin­co un ta­le, o­spite da noi, a veni­re con me. Era un sol­dato, for­te co­me un de­mo­nio. Le­viamo le chiap­pe ver­so il can­to del gallo. La luna splen­deva come a mez­zo­giorno. Ar­riviamo a un sepolcreto: il mio uo­mo si mette a farla tra le tombe, io mi sie­do cante­rellando a contar le steli. Poi, quando torno con gli occhi al com­pa­gno, quello è lì che si spo­glia e de­pone tutti gli abiti al mar­gine del­la stra­da. Io avevo il cuore in gola, più morto che vi­vo. Quel­lo al­lora piscia in cer­chio in­torno agli abiti e al­l’im­provviso diven­ta lupo. Crede­temi, non scher­zo. Dun­que, come dicevo, dive­nuto lupo, cominciò ad ulu­la­re e fuggì nei bo­schi. Io sulle prime non sapevo più dove fossi. Poi mi avvi­ci­nai, per raccatta­re gli abiti di quello là, ma essi era­no di­ventati di pietra. Chi più morto di paura di me? Tutta­via strinsi in pugno la spada, e – matavi­ta­tau – an­dai in­filzando le om­bre, sin quan­do non giun­si al podere della mia a­mica. En­trai come uno spettro, mez­zo scop­pia­to, il su­dore mi cor­reva lungo la schiena, gli occhi sbar­ra­ti: ce ne volle per ri­met­termi. La mia Melissa era stupi­ta che fossi in gi­ro così tardi, e “Se arrivavi prima, – disse – al­meno ci davi una ma­no: un lupo è en­trato nel podere e da ve­ro ma­cel­laio ha sgoz­zato tutte le be­stie. Pe­rò non l’ha fatta franca, anche se è riu­scito a fug­gire: uno dei no­stri schiavi gli ha trafitto il collo con la lan­cia”. Appena fatto giorno, via di corsa… E una vol­ta giunto nel luo­go dove gli abiti era­no di­ventati di pie­tra, non trovai che san­gue. Giun­to a casa, il mio sol­dato giaceva sul letto che sembrava un bo­ve e c’era un me­dico a cu­rargli il collo. Mi fu chiaro che era un lupo man­naro, né ho potuto da allo­ra di­vi­dere il pane con lui, nem­meno se mi aves­sero am­mazza­to. Comunque la pensiate su questa storia, se mento avrò con­tro tutti i vo­stri spiriti pro­tet­tori.

SLIDE 40. Grazie e arrivederci